mercoledì 15 ottobre 2008
martedì 7 ottobre 2008
venerdì 12 settembre 2008
VENEZIA 65
Deleuze, The Wrestler, Un giorno perfetto e il Primo Piano
(ossia quando il Volto si fa Volto e quando il Volto è de-voltificato)
"L'immagine-affezione è il primo piano, e il primo piano è il volto", scrive Gilles Deleuze nel capitolo 6 del primo dei suoi due trattati di filosofia del cinema, "L'immagine-movimento": è cioè allo stesso tempo sia un'immagine specifica e determinabile in base a parametri quantitativi, sia una componente interna a qualunque tipo di piano e campo. Vale a dire, c'è un primo piano di misura, quello comunemente inteso, e un primo piano di senso, come, per esempio, nel caso di un paesaggio, che può essere filmato come un volto, sebbene inquadrato in un campo lungo o lunghissimo. Vediamo in che modo. Paragonando la superficie del volto a quella di un orologio, lo studioso francese definisce il volto una lastra nervosa porta-organi che ha sacrificato l'essenziale alla propria mobilità globale, e che raccoglie o esprime apertamente ogni specie di movimenti locali che il resto del corpo tiene normalmente nascosti. Ogni volta che in qualcosa si scoprono questi due poli, superficie riflettente e micro-movimenti intensivi, si potrà dire che quella cosa è stata inquadrata come un volto, è stata "voltificata". Anche un paesaggio, tornando all'esempio precedente, può avere, insomma, i sussulti di un volto, animarsi di micromovimenti, e quindi "voltificarsi". Un gioco di ombre che crea dualismi spaziali, o uno spazio vuoto che si contrappone a uno pieno, o un semplice movimento del profilmico, per esempio l'oscillare di una foglia alla stregua di un battito di ciglia sulla superficie di un volto/paesaggio immobile, rivelano nel paesaggio le stesse potenzialità di un volto filmato come "volto" (perchè alle volte questo non avviene, e in questo caso il volto è de-voltificato). Deleuze individua due tipi di primi piani: quello in cui prevale la "superficie di voltificazione", in cui cioè il volto è prevalentemente contorno, linea avviluppante, e quello in cui invece entrano in azione tratti dispersi, linee frammentarie, ribelli al contorno, e cioè in cui prevalgono i "tratti di volteità". Nel primo caso il volto si fa riflessivo e riflettente, e i tratti sono raggruppati sotto il dominio di un pensiero fisso, inalterabile e senza divenire, eterno addirittura; nel secondo caso, invece, il volto si fa intensivo, e mette in moto una serie intensiva che opera un salto qualitativo, e che non esprime solo una qualità, ma la potenza di passaggio da una qualità all'altra. Pensavo a questa distinzione mentre guardavo il film di Ozpetek presentato a Venezia. Non riesco tuttora a togliermi dalla testa alcuni primi piani e mi domando: erano volti concentrati sull'espressione di una qualità/emozione specifica oppure volti in cui i micromovimenti esprimevano variazioni in divenire, emozioni in procinto di sopraggiungere? La fissità stordita di quei primi piani stava per farmi optare per la prima alternativa, ma oggi ci ho pensato bene e mi sono reso conto che quella fissità è solo fissità vuota, finestra spalancata sull'assenza di senso, e che il volto nel film non è filmato come volto, e cioè luogo di espressione di qualità in atto o in potenza, ma come segnale stradale, messo lì ad indicare allo spettatore che si trova in presenza di un avvicinamento meccanico al personaggio e quindi deve preoccuparsi di penetrare nel suo intimo. Se ce ne fosse stato uno. Un giorno perfetto è una pinacoteca di volti de-voltificati che sembrano non appartenere a quei personaggi, a quelle linee emozionali, e la loro fissità neutra serve/servirebbe soltanto a ipnotizzare lo spettatore indifeso e illuderlo di penetrare l'emozione di un uomo o di una donna rispetto ai quali, nel corso del film, si resta invece sempre all'esterno (almeno questa è la mia impressione). Personalmente non mi piace quest'uso ruffiano e televisivo del primo piano, e non mi piace il primo piano inteso solo come espediente di montaggio, e non come mezzo di espressione. Penso invece al film vincitore della mostra, il bellissimo The Wrestler di Aronovsky. Ricordo un primo piano straordinario di Mickey Rourke, in cui il volto del protagonista resta semi-immobile per alcuni lunghi secondi, inchiodato, attraverso gli occhi, su quello della figlia. Sono secondi durante i quali l'immobilità non è pietrificata ma vibrante, lentissimamente vibrante, e su quel volto immobile leggiamo la consapevolezza di un destino di dolore e di colpa immutabile, ma allo stesso tempo sentiamo su quello stesso volto la voglia di scrivere tra le proprie rughe, le proprie cicatrici e i propri micro-interstizi emozioni di segno diverso, che a quel destino regalino svolte impreviste, o anche solo temporanee dimenticanze. Restiamo sospesi, durante quei secondi, sospesi sul filo assieme a quel volto, e alla sua coscienza, al suo sapere, e poi cadiamo, precipitiamo nell'abisso, quando da quella superficie riflettente, ma viva e non rigida nel suo riflettere, viene giù una lacrima, che velocissima lo riga e lo taglia. Nel tagliarlo, però, non gli procura soltanto un'apertura nel senso di ferita, taglio simbolico, lesione della superficie e squarcio dell'anima, ferita che lo denuda e letteralmente lo ostende agli occhi inquisitori, ma ancora pieni d'amore, della figlia, bensì anche come nuova possibilità di vita, improvviso allargamento dell'orizzonte: una lacrima che rompe gli argini di una palpebra e cade è il sintomo di un volto che ammette la propria penetrabilità, e quindi vulnerabilità, e soltanto dichiarando la propria debolezza il volto si lascia finalmente guardare, poiché gli occhi dell'altro sono assorbiti e non più soltanto ricevuti. Prima superficie riflettente, poi tratti di volteità: sono le due fasi di questo meraviglioso primo piano di Mickey Rourke. Quand'è usato così, e pochi riescono a farlo, il primo piano acquista un senso: perchè, in caso contrario, avvicinarsi tanto a un essere umano? D'altronde, nella visione normale, non-cinematografica, l'essere umano non "vede" in primi piani, piuttosto li utilizza quando "pensa" a qualcuno, e quindi in una sfera non-visiva bensì virtuale. Nel primo piano di Mickey Rourke ci sono insieme qualità e potenza, attuale e virtuale, emozione e pensiero, e c'è soprattutto un volto che sa, che ha coscienza, che sente: in questo senso, racconta un mondo interiore enorme in pochi secondi. Cosa racconta, invece, un primo piano che deve indicare soltanto "rabbia", o "ira, o "dolore", o "dispiacere"? Durante la visione di Un giorno perfetto ho avuto spesso la sensazione che i primi piani indicassero qualcosa, appunto, ma non raccontassero niente. E' così che un primo piano si fa marca indexicale, istruzione per l'uso per lo spettatore televisivo, immagine che tratta di emozioni senza vissuto.
Ozpetek ha più volte utilizzato campi/controcampi silenziosi in cui i primi piani non parlano, probabilmente perché sperava che il silenzio e la fissità del viso attivassero automaticamente un fuori campo che invece non si è attivato mai. Il silenzio è troppo silenzioso e quindi non è silenzio, perché il silenzio, per parlare, e quindi essere, ha bisogno di un piccolissimo rumore (sonoro e/o visivo) che lo renda appunto espressivo, concreto, materico, presente (silenzio non è infatti sinonimo di muto), così come un volto ha bisogno di un micromovimento per attivare potenzialità espressive, evolutive, performative.
A meno che, come ci dice Deleuze, tutto quel volto non si concentri nell’espressione di una qualità eterna, immobile, definitiva, onnicomprensiva di qualunque tratto interno al contorno-volto. Ma qui entriamo in una sfera diversa, dalla quale appunto la fissità inespressiva e attonita dei primi piani ozpetekiani viene ahimé estromessa. Entriamo, cioè, nella sfera dell’immobilità imperfetta del primo piano di The Wrestler descritto prima (in cui il primo piano sviluppa tutte le sue potenzialità), o nell’immobilità perfetta, medusea del volto di Edmund in Germania Anno Zero. Ma attenzione, parliamo di un’immobilità che quanto mai densa e lontana dal mutismo semantico. Penso a uno dei primi piani finali del film, uno dei pochissimi dedicati al bambino protagonista e l’unico così prolungato, così evidenziato all’interno del decoupàge, nonché l’unico angolato leggermente dal basso, ad evidenziare la volumetria del volto stesso.
Edmund, per tutti gli ultimi minuti del film, com’è noto, “va a zonzo”, per dirla con il linguaggio di Deleuze, deambula senza meta, saltando qua e là, a volte come giocando, tra le macerie polverose di una Berlino distrutta nel corpo e nello spirito. Il suo corpo agile cerca nel cammino tra le strade e nella danza sulle macerie la possibilità di un mutamento, di un “alleggerimento” di una situazione evidentemente pesante, solidamente piantata nella disperazione. Quasi l’ipotesi di un volo calviniano. Un volo impossibile, purtroppo. Edmund fa quindi il suo ingresso in uno dei tanti palazzi/scheletro della città, sale a un piano alto, e di lì ora può guardare la città distrutta nel suo complesso, così come può osservare la vita distrutta dei suoi fratelli che lo cercano inutilmente per le strade, e può guardare perfettamente negli occhi l’assenza del padre che ha ucciso, e quindi scotomizzare la propria colpa. Qui Edmund acquista uno sguardo distante, “oggettivato” dal mondo esterno che gli si offre in tutta la propria irriducibilità e da quello interno che gli si presenta impietoso, sostituito simbolicamente dalle macerie, al proprio sguardo. E allo stesso tempo, per la prima volta nel film, Rossellini regala al bambino un primo piano che è anche profondamente “soggettivo”: su quel volto si scrive la consapevolezza pietrificata di una situazione immutabile, di una colpa immondabile, di una vita irrecuperabile; su quel volto che si fa pietra e maceria, dove neppure un micromovimento apre ad altri possibili, la decisione si fa conseguente: la morte si prefigura come suggello di una situazione fissata per sempre. Come unico barlume di senso. Rossellini costruisce in questo caso un’immobilità perfetta e abissale, rumorosissima e silente allo stesso tempo, una fissità piena e mai vuota, una superficie di voltificazione, per riprendere la terminologia di Deleuze, che può fare a meno dei tratti di volteità dei micro-movimenti perché attiva, in fuori-campo, un movimento più grande, quello dello Spirito che agisce sulla vita del bambino e sulla storia di una città e di un mondo interi.
lunedì 8 settembre 2008
Il progetto è qui su carta, e urla la sua voglia di essere filmato. Sarà una favola nera, cioè la vicenda surreale di una donna che vuole tornare bambina, un piccolo racconto crudele ma allo stesso tempo tenero verso le debolezze umane, una breve parabola non conciliata e non conciliante, ma alla fine immersa nella luce… Un corto denso, credo, un pugno nello stomaco, un breve viaggio antieroico condensato in un interno senza tempo.
Io e le persone con cui di solito condivido l'esperienza artistica stiamo cerchiamo soldi e persone che vogliano entrare nel progetto, nelle vesti di mecenati oppure di veri e propri produttori/coproduttori del cortometraggio.
venerdì 5 settembre 2008
venerdì 25 luglio 2008
mercoledì 16 luglio 2008
SULL’EVENTO DEL PERDERSI
di Fabio Baccelliere
Capita spesso, molto spesso, che due persone si perdano nella vita reale, o almeno in quella che, convenzionalmente, consideriamo tale. Perdersi, fisicamente e mentalmente, può essere a volte il punto di inizio di un viaggio che termina con il ritrovarsi reciproco, e in quel caso la vita prende l’aspetto di un entusiasmante progetto narrativo, fatto di alti e bassi, ascese e cadute, di un luogo magico dove risplendono incastri imprevisti e ritorni miracolosi, con i loro relativi significati, che tracimano e si sprecano, e sprecandosi, ci riempiono di senso. La distanza, in quel caso, è la sorella gemella della vicinanza, è contemporaneamente la sua necessità ed il suo antidoto.
Ma non è sempre così.
Altre volte, infatti, perdersi è soltanto un punto fermo, una conclusione. Dopo, restano gli effetti dei rimpianti, delle domande senza risposta e delle risposte chiuse nel bozzolo incancrenito del dubbio, del tempo che va avanti e del tempo che non torna indietro, del tempo che non sarà anche se avrebbe potuto essere. Non prelude, insomma, ad alcun ritrovamento, individuale o reciproco che sia. Prelude soltanto al vuoto. In questo secondo caso, la vita non prende la forma di un cerchio che si chiude, né la consistenza di uno specchio nel quale il passato si riflette, rinnovato, in un nuovo presente. Non è un progetto narrativo, o forse lo è, ma è una narrazione aperta, inconclusa, infinita, non-finita.
Poi, si sa, tutti i vuoti si colmano. La vita di ciascuno è sì un grande romanzo, ma non tutti i romanzi sono uguali: ci sono quelli con una lunghissima e unica linea narrativa, e quelli fatti di storie molteplici, che si scontrano, incontrano, incrociano, o semplicemente si susseguono. E quindi i vuoti ci saranno sempre, alla fine di una di queste storie, e tutto sta nel colmarli di volta in volta, per portare avanti il romanzo, fino alla fine del proprio tempo, fino alla fine del proprio mondo.
Tutti i pozzi possono restare prosciugati, e tutti i pozzi possono essere nuovamente riempiti. Ma a una domanda potremmo non saper rispondere: davvero quell’acqua ha riempito tutto il vuoto, oppure si sono conservate delle bolle d’aria, e dentro di essere ancora resta qualcosa di quel vuoto precedente? Perché il vuoto è sempre qualcosa che può restare, e crescere all’interno di un apparente pieno, come un virus, un parassita, una malattia, un embolo silenzioso. In quel caso il passato disturberà il presente e marchierà surrettiziamente di sé il futuro…
Allora non resta che tornare indietro. Per sicurezza, diciamo così. Per ascoltare quella perdita iniziale, capire se era un preludio o un epilogo, un inizio o una fine. Se non si riconosce la natura delle proprie storie personali, si rischia di non capire se stessi mai, di non riconoscersi, e di non riconoscere gli altri. E se gli altri non ti riconoscono, non possono viverti, e se non possono viverti, tu non vivrai del tutto, se non in te stesso.
Non vivrai del tutto, se non in te stesso…
venerdì 27 giugno 2008
lunedì 2 giugno 2008
giovedì 29 maggio 2008
mercoledì 7 maggio 2008
Ho il piacere e l'onore di pubblicare
alcune poesie dei ragazzi e delle ragazze
della IIB della Sms "Antonio Gramsci".
1)
Massimiliano Ranieri
Il sole mi indica la strada della vita
illuminando la faccia della donna
di cui sono innamorato.
4)
Daniele Pierini
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Il sole è una stella che ardente brucia,
il sole è una bomba carica di ricordi
con i suoi occhi lucenti osserva la Terra
che si sveglia dolcemente al candore della luna.
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5)
Martin Levy
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Il buio della notte sta per giungere:
ti prego sole, non tramontare.
Ho bisogno della tua luce
per ritrovare il mio cuore.
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6)
Noemi Oliveri
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Questa mattina mi sono svegliata
e, aprendo gli occhi, ho visto tutto buio...
ho pensato che il sole non fosse ancora sorto,
ma mi sbagliavo,
perchè pensando a te è sorta una luce,
la mia luce, la luce più bella.
So che queste parole non ti potranno toccare
ma....
tra le tue braccia fammi tornare,
perchè so che insieme dimenticheremo questo dolore.
E una lcue da lassù ci aiuterà a ricominciare.
Sei la mia vita, il mio cuore
ed è grazie a quella luce che
in noi dobbiamo sperare.
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7)
Desirèe Galli
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Sole,
tu che mi aiuti sempre,
dammi una mano anche questa volta.
Ho bisogno di felicità,
perchè nel mio cuore si è esaurita.
Ti prego per oggi non tramontare
perchè se salirà la notte
il mio cuore si riempirà di oscurità.
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8)
Jasin Fejzi
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Per me il sole significa la vita,
per me il sole significa la morte,
starò lì in mare e osserverò il sole
pensando già alla notte quando il sole tramonterà.
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9)
Federico Pannella
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Ogni pianta ha il suo posto per vivere.
Anche il sole può fare male,
ma quando non è alto nel cielo
tutto sembra più buio.
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10)
Niccolò Rotoni
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Sole,
come angelo luminoso entri in me
e mi illumini;
come angelo entri in me
e mi dici dal profondo del cuore:
"Non arrenderti, continua a non perdere la speranza!".
Ma io come stolto la perdo,
mentre tu sei sempre lì, pronto a incoraggiarmi.
Come angelo mi dici:"Diglielo! Diglielo! Diglielo!",
ma io mi mostro senza coraggio.
Tu per me sei l'angelo che mi ha fatto innamorare,
sei per me il seme del mio amore,
sei per me luce e spirito,
sei colui che un giorno mi farà gridare
"Ti amo"
alla persona che ho sempre amato e
che amerò per sempre.
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11)
Francesco Amato
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Il sole d'estate riscalda l'aria e il cuore,
porta felicità nei ragazzi perchè finiscono le scuole.
Il sole d'inverno è debole, perchè le nuvole lo coprono.
Cadono le prime foglie,
le giornate sono tristi e scure,
e tutto questo perchè manca il sole.
D'autunno il sole è strano e non si vede,
perchè è lontano.
Il freddo non piace a nessuno
e lampi e tuoni entrano nei cuori
e li riempiono di tristezza,
e questo solo perchè non c'è il sole.
La primavera è lucente e splendente,
le rondini tornano,
iniziano i primi giochi d'acqua
e i ragazzi giocano e si divertono
e tutto questo grazie al sole.
giovedì 1 maggio 2008
Rivalutare. Rivedere i valori in cui crediamo e in base ai quali organizziamo la nostra vita, cambiando quelli che devono esser cambiati. L’altruismo dovrà prevalere sull’egoismo, la cooperazione sulla concorrenza, il piacere del tempo libero sull’ossessione del lavoro, la cura della vita sociale sul consumo illimitato, il locale sul globale, il bello sull’efficiente, il ragionevole sul razionale. Questa rivalutazione deve poter superare l’immaginario in cui viviamo, i cui valori sono sistemici, sono cioè suscitati e stimolati dal sistema, che a loro volta contribuiscono a rafforzare.
Ricontestualizzare. Modificare il contesto concettuale ed emozionale di una situazione, o il punto di vista secondo cui essa è vissuta, così da mutarne completamente il senso. Questo cambiamento si impone, ad esempio, per i concetti di ricchezza e di povertà e ancor più urgentemente per scarsità e abbondanza, la “diabolica coppia” fondatrice dell’immaginario economico. L’economia attuale, infatti, trasforma l’abbondanza naturale in scarsità, creando artificialmente mancanza e bisogno, attraverso l’appropriazione della natura e la sua mercificazione.
Ristrutturare. Adattare in funzione del cambiamento dei valori le strutture economico-produttive, i modelli di consumo, i rapporti sociali, gli stili di vita, così da orientarli verso una società di decrescita. Quanto più questa ristrutturazione sarà radicale, tanto più il carattere sistemico dei valori dominanti verrà sradicato.
Ridistribuire. Garantire a tutti gli abitanti del pianeta l’accesso alle risorse naturali e ad un’equa distribuzione della ricchezza, assicurando un lavoro soddisfacente e condizioni di vita dignitose per tutti. Predare meno piuttosto che “dare di più”.
Ridurre. Sia l’impatto sulla biosfera dei nostri modi di produrre e consumare che gli orari di lavoro. Il consumo di risorse va ridotto sino a tornare ad un’impronta ecologica pari ad un pianeta. La potenza energetica necessaria ad un tenore di vita decoroso (riscaldamento, igiene personale, illuminazione, trasporti, produzione dei beni materiali fondamentali) equivale circa a quella richiesta da un piccolo radiatore acceso di continuo (1 kw). Oggi il Nord America consuma dodici volte tanto, l’Europa occidentale cinque, mentre un terzo dell’umanità resta ben sotto questa soglia. Questo consumo eccessivo va ridotto per assicurare a tutti condizioni di vita eque e dignitose.
Riutilizzare. Riparare le apparecchiature e i beni d’uso anziché gettarli in una discarica, superando così l’ossessione, funzionale alla società dei consumi, dell’obsolescenza degli oggetti e la continua “tensione al nuovo”.
Riciclare. Recuperare tutti gli scarti non decomponibili derivanti dalle nostre attività.
L'assunto principale è che le risorse naturali sono limitate e finite e quindi non si può immaginare un sistema votato ad una crescita infinita. Il miglioramento delle condizioni di vita deve quindi essere ottenuto senza aumentare il consumo ma attraverso altre strade. Proprio per la costruzione di queste vie sono impegnati numerosi intellettuali, al seguito dei quali si sono formati movimenti spesso non coordinati fra loro, ma con l'unico fine di cambiare il paradigma dominante della necessità di aumentare i consumi per dare benessere alla popolazione. Un esempio di questi gruppi sono i GAS, Gruppi di Acquisto Solidale, i sistemi di scambio non monetario o gli ecovillaggi. Il principale esponente di questa corrente è Serge Latouche. In Italia troviamo Maurizio Pallante, Massimo Fini, Mauro Bonaiuti e Paolo Gabrini.
Il funzionamento del sistema economico attuale dipende essenzialmente da risorse non rinnovabili. Così com'è, non è quindi perpetuabile. I sostenitori della Decrescita partono dall'idea che le riserve di materie prime sono limitate, particolarmente per quanto riguarda le fonti di energia, e ne deducono che questa limitatezza contraddice il principio della crescita illimitata del PIL, e che, anzi, la crescita così praticata genera dissipazione di energia e crescente dispersione di materia.Alcuni sostenitori della teoria (in particolare Vladimir Vernadskij), mutuando dalla seconda legge della termodinamica il concetto di entropia, ritengono che la crescita del PIL comporti una diminuzione dell'energia utilizzabile disponibile, e della complessità degli ecosistemi presenti sulla Terra, assimilano la specie umana ad una forza geologica entropizzante.
Non v'è alcuna prova della possibilità di separare la crescita economica dalla crescita del suo impatto ecologico.
La ricchezza prodotta dai sistemi economici non consiste soltanto in beni e servizi: esistono altre forme di ricchezza sociale, come la salute degli ecosistemi, la qualità della giustizia, le buone relazioni tra i componenti di una società, il grado di uguaglianza, il carattere democratico delle istituzioni, e così via. La crescita della ricchezza materiale, misurata esclusivamente secondo indicatori monetari può avvenire a danno di queste altre forme di ricchezza.
Le società attuali, drogate da consumi materiali considerati futili (telefoni cellulari, viaggi aerei, uso costante e non selettivo dell'auto ecc.) non percepiscono, in generale, lo scadimento di ricchezze più essenziali come la qualità della vita, e sottovalutano le reazioni degli esclusi, come la violenza nella periferie o il risentimento contro gli occidentali nei paesi esclusi dallo (o limitati nello) sviluppo economico di tipo occidentale.
La teoria della decrescita sostenibile non implica evidentemente il perseguimento della decrescita in sé e per sé: si pone invece come mezzo per la ricerca di una qualità di vita migliore, sostenendo che il PIL consente solo una misura parziale della ricchezza (un incidente d'auto, ad esempio, è un fattore di crescita del PIL) e che, se si intende ristabilire tutta la varietà della ricchezza possibile, allora è urgente smettere di utilizzare il PIL come unica bussola.
domenica 13 aprile 2008
Buongiorno signor regista.
Buongiorno a lei, signor critico.
Dunque parliamo del suo ultimo lavoro. Il titolo mi colpisce. “Dove ci porta la corrente”. Le giro la domanda omologa. Dove ci porta la corrente?
Non lo so. Non le rispondo così per vezzo, davvero. Se lo sapessi, probabilmente non avrei avuto l’esigenza di girare il corto. Diciamo che ho voluto porre a me stesso una domanda per trovare una risposta e che ad oggi non ci sono riuscito.
La corrente da qualche parte dovrà pure portare...
Sinceramente, credo di avere qualche problema nel definire il concetto di mèta: probabilmente perché in questo momento non ho una visione esistenziale chiara, netta, con punti di partenza e punti di arrivo indiscutibili. Parlo sia in termini individuali che collettivi
Insomma, mi pare di capire che il suo lavoro abbia a che fare con la mancanza di un punto d’arrivo certo, forse addirittura di una direzione.
Diciamo piuttosto che ha a che fare con la mancanza di una scelta: molte volte lasciamo alla casualità della corrente la direzione della nostra vita, mentre dovremmo cercare di diventare noi stessi la corrente. Così facendo, invece, la nostra dinamica esistenziale è simile a quella delle foglie del corto: danziamo credendo di decidere noi il nostro movimento ma in realtà siamo soltanto trasportati da una forza liquida superiore ed il nostro è un valzer eterodiretto, innescato magari da impulsi interni ma indirizzato e governato da energie estranee, come il moto di rotazione di un pianeta la cui direzione è però governata da forze di gravità esterne. In fin dei conti, diventando noi stessi, cioè la corrente, la nostra mèta ci diventa chiara, e di conseguenza raggiungibile.
E questo quindi il messaggio del suo film?
Cosa intende con la parola “messaggio”?
Quando un artista partorisce un’opera soddisfa il bisogno di dire qualcosa di importante che gli esplode dentro. Intendo questo.
Non confonderei l’urgenza espressiva con la voglia di lanciare messaggi all’umanità: anzi, le dirò di più, credo che la prima escluda automaticamente la seconda. D’altro canto se l’urgenza esiste realmente stia certo che l’opera finale crea da sé un circuito di comunicazione.
La sua risposta mi fa pensare che quando crea lei tiene un atteggiamento autoreferenziale.
Tutt’altro. Semplicemente io non ho messaggi da lanciare. Piuttosto vorrei avere emozioni da contagiare, sfruttando le potenzialità "virali" dell'arte. Mi piacerebbe che gli spettatori del corto entrassero nel percorso indefinito e nell’atmosfera sospesa che caratterizzano, credo, questo lavoro. Spero di causare nelle persone un’irritazione dell’anima.
Un’irritazione dell’anima? Si spieghi meglio.
Gli uomini cercano automaticamente lo stato di equilibrio interiore. Il che vuol dire temperatura media. La temperatura media è il profilo esistenziale del quotidiano, mentre l’arte deve produrre un surriscaldamento, e quindi uno scarto stra-ordinario. Ammesso che io abbia fatto arte, in questo caso. E’ come un sistema bloccato nell’entropia nel quale si immette energia nuova per creare dinamicità. Parlando di interiorità umana, credo che l’anima, o il nostro “sentire”, ha assolutamente bisogno di espandersi, e per farlo c’è bisogno che qualcosa ne renda porosi i confini, o che li faccia esplodere. Quel qualcosa può essere soltanto l’arte.
Qualunque tipo di arte?
Non saprei. Probabilmente quell’arte che lascia spazio a chi la fruisce, che lascia zone d’ombra, che non definisce e si definisce completamente.
Lei insegue un’arte indefinita, insomma.
Il che non vuol dire imprecisa. Semplicemente, mi piace quando i contorni non sono confini rigidi, quando il colore esce dai bordi, quando il tempo si sfalda.
Come nel corto precedente, al centro del racconto ci sono due persone: un uomo e una donna…
Vuol dire che tendo a ripetermi?
No. Penso che abbia delle predilezioni. Mi sbaglio?
In parte sì e in parte no. Le dinamiche tra uomo e donna mi hanno sempre appassionato. In chiave antropologica e simbolica più che psicologica. Sono talmente varie che non si finisce mai di raccontarle. Ad ogni modo, credo che la prossima volta cambierò.
In che modo?
Farò un film transgender. Parlerò della terza via.
Vorrei parlare ancora di ricorrenze. Troviamo un’altra volta l’acqua.
Amo tutto quanto è liquido. I solidi mi fanno paura, sono immobili e portano al loro interno la mancanza di vibrazione propria della morte.
A volte però la solidità ci definisce.
Dice?
E’ il nostro principio di individuazione. Come si può sapere chi siamo se non ci fermiamo, se non ci solidifichiamo?
Confondere l’identità con lo stato solido è un inganno filosofico e politico. Ciò che è liquido non si può afferrare e la nostra società è strutturata in modo tale che chi la comanda ha la necessità di controllare, mentalmente e fisicamente, tutti gli altri. Ma ora stiamo andando oltre il mio corto.
Quindi dopo il mare con “La voce del mare” e il fiume con “Dove ci porta la corrente” cosa racconterà la prossima volta? Un lago? Una cascata?
Gli esempi di liquidità in questo mondo sono molto più numerosi di quelli che lei crede. Io stesso sono liquido, per esempio. Se vuole può anche bermi. Potrei scioglierle le idee, magari.
Ho ancora qualche domanda. Mi ha colpito per esempio il montaggio del film. Si gioca con i flashback, con i flashforward…
Il tempo è multiforme, l’idea di rappresentarlo con una linea retta è una nostra convenzione. Con Andrea Costantino (l’autore del montaggio, ndr) abbiamo pensato, al contrario, di rompere questa linearità a vantaggio di un doppio livello. A quel punto la storia dei due protagonisti ci è sembrata come chiusa all’interno di un cerchio e il loro tempo non una successione di stati o eventi, ma un sovrapporsi di parole e fatti che entrano in conflitto. E il conflitto è il motore della narrazione, ciò che lega e divide, e in questo caso è il trait d’union tra le due profondità temporali, il presente e il passato, appunto, ed è ciò che dà un senso alla loro sovrapposizione.
C’è una dissolvenza molto bella nel corto: mi riferisco a quella che unisce il passato e le foglie e la casetta sul Ticino del presente, in una sorta di raccordo a tre stadi. Una scelta di linguaggio forte.
Abbiamo fatto un gran lavoro di montaggio. Le ho spiegato prima qual’è stato il concetto di partenza: è a quello che ci siamo attenuti per ogni tipo di scelta. Questo ha comportato qualche sacrificio di materiale e ha prodotto qualche invenzione geniale come quella da lei citata, che genera simultanemante una sintesi temporale e una fusione semantica degli spazi. Andrea Costantino è stato fondamentale: è un grande montatore, o meglio autore del montaggio, espressione che rende meglio l’idea che il montaggio è parte integrante del processo creativo, e più precisamente l’ultimo stadio della scrittura di un film.
Ha scelto un linguaggio essenziale: niente carrelli, pochi movimenti e per di più con macchina a spalla…
Da una parte amo il linguaggio essenziale, perché preferisco lavorare di più sull’inquadratura a livello di forma e significato. Il movimento a spalla mi consente invece di mettermi più al servizio degli attori e di dare vibrazione al mondo raccontato. Il carrello ti dà un tipo di movimento geometrico, disegna traiettorie regolari che in questo lavoro non c’entravano molto. Avrei voluto avere un piccolo dolly, piuttosto, perché è uno strumento straordinario quando vuoi unire alto e basso, cioè disegnare linee trascendenti, o rompere un cerchio narrativo attraverso un “respiro di macchina”. Ma il dolly non ce l’avevo, e quindi ho dovuto fare di necessità virtù.
Come mai la scelta di lavorare con due direttori della fotografia?
Un uomo e una donna non hanno solo quattro occhi, ma soprattutto due sensibilità che si possono integrare in modo perfettamente funzionale. Due modi di vedere il mondo ti possono dare più possibilità di scelta. Come è di fatto avvenuto. Non credo che si sarebbe lavorato allo stesso modo con due uomini o due donne.
Certo che lei per essere un giovane regista ha le idee abbastanza chiare.
Tanto giovane non sono, vado per i 32.
In Italia lo è.
Appunto! In altri paesi sarei un regista e basta. In Italia sono anche “giovane”. Sa bene cosa vuol dire. E’ un cosiddetto “giovane” anche lei.
Come ha impostato il lavoro con gli attori?
Intanto premetto che ho avuto la fortuna di trovare due grandi attori, Anita Kravos e Alessandro Riceci. Il mio lavoro con loro è stato fondamentalmente impostato sul dialogo: ho cercato fin dall’inizio di condividere con loro il “mood” che cercavo di esprimere. Entrambi restituiscono sullo schermo la sospensione, l’indeterminatezza, la mancanza di direzione interiore che desideravo. Al punto che alla fine del lavoro io stesso, dopo averli diretti, ho perso la mia direzione. Ma questa è un’altra storia…
La protagonista del film è una prostituta, ma non è che si veda tantissimo il mondo della prostituzione.
Spero che si senta per assenza. Sarebbe meglio. Ad ogni modo mi interessava il principio simbolico, non il dato sociologico. Non sono bravo in quelle cose, e comunque non rientrano per il momento nella mia ricerca. Ho cercato di far sentire la violenza che la protagonista subisce senza mostrarla, utilizzando la canzone russa che
canta e la formula magica che recita come mezzi illusori di liberazione. Ciò credo che richiami per metonimia una prigione invisibile ma molto dura, una violenza radicale a cui si può rispondere solo con una difesa estrema da parte dell’immaginario individuale. Se è vero che l’uso del fuori campo è molto complicato, quando si riesce a farlo funzionare l’effetto è molto forte. In questo caso si mostra la causa, vista e rivista tante volte in tanti altri film, attraverso i suoi effetti e le risposte soggettive generate. Credo sia più interessante.
Cosa si aspetta da questo corto?
Non mi aspetto niente. Piuttosto spero che riesca a far provare un’emozione agli spettatori che lo guarderanno.
Lei non ha mire ambiziose...
Tutt’altro. Sento in giro sempre meno vibrazione interiore, scarsa ricerca della percezione “altra”. Questo riduce la vita a un numero frazionario. Io sono per gli interi esponenziali, per i numeri potenzialmente infiniti. Provare un’emozione è un allargamento della nostra vita, un’espansione siderale: farla provare, di riflesso, produce gli stessi effetti. La trova un’ambizione così da poco?
E’ per questo che vuole fare del cinema?
E’ per questo che vivo. Il cinema è solo il mezzo del momento.
FINE
venerdì 28 marzo 2008
domenica 24 febbraio 2008
da James Hillman
"Puer Aeternus"
"Dobbiamo inoltre concludere che il Senex negativo ha perduto il suo "bambino". Senza l'entusiasmo e l'eros del Figlio, l'autorità perde il suo idealismo. Non aspira ad altro che alla propria perpetuazione, non può condurre ad altro che al dispotismo e al cinismo; perchè il significato non può reggersi soltanto sulla struttura e sull'ordine. Così lo spirito è unilaterale e l'unilateralità paralizzante. L'essere è statico, pleroma incapace di divenire. Il tempo diventa virtù morale e addirittura testimonianza della verità. Il vecchio è sempre preferito al nuovo. La sessualità priva di eros giovane diventa caprigna; la debolezza diventa lagnosità; l'isolamento creativo soltanto isolamento paranoide. Poichè è incapace di adeguarsi al nuovo e di seminare nuovi semi, il complesso (del senex) si nutre della crescita di altri complessi o di altre persone, per esempio della crescita dei figli, o del processo evolutivo in atto nell'analizzando. Separato dal proprio Figlio e Folle, il complesso non ha più nulla da dirci. Senza follia non ha saggezza, solo conoscenza - seriosa, deprimente conoscenza ammassata in caveeau accademici o usata come potere."
lunedì 18 febbraio 2008
mercoledì 13 febbraio 2008
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sabato 19 gennaio 2008
giovedì 3 gennaio 2008
(alias: degli italiani)
Carissimi lettori del blog,
sono molto felice di comunicarvi che il 2008 è cominciato nel migliore dei modi possibili!!! Il paese in cui viviamo e in cui moriamo, in cui sogniamo ad occhi aperti e ad occhi chiusi (ma soprattutto ad occhi chiusi: quando apriamo gli occhi proprio non ci si riesce a sognare…), in cui lavoriamo e felicemente paghiamo le equanimi tasse, in cui facciamo crescere i nostri figli e le nostra figlie, e contestualmente anche le nostre malattie nervose grazie alle rilassatezze della nostra paradisiaca guerriglia quotidiana (guerriglia nella quale a volte cadiamo valorosamente, come succede “ogni tanto” su qualche nostro luogo di lavoro…), ebbene il paese in cui viviamo (si chiama Italia, tanto per ricordarvelo) esiste ancora ed è più in forma, più bello e più prospero che mai!
Il nostro presidente del consiglio, infatti, poco prima della fine del funesto 2007 ha tranquillizzato gli italiani (a dire il vero, così conciato com’era lassù, sui quei monti sperduti, a mo’ di un extraterrestre rifiutato dalla sua specie, non è che avesse molto di tranquillizzante da comunicare): la notizia del sorpasso economico della rampante Spagna ai danni dell’italica Armata Brancaleone era solo una bufala. Un lazzo di fine dicembre. Uno scherzetto poco carino di quel birichino di Zapatero (ma si sa, i giovani governanti sono così, hanno il gusto della boutade!). Il nostro savio primo ministro ci ha rassicurati adducendo al suo discorso, più come una sorta di corroborante al miele per latte amaro più che come decente sostegno teorico-pratico, una preziosissima argomentazione, talmente “definitiva” e assoluta da aver immediatamente fugato le nebbie della decadenza, che negli ultimi tempi sono state fatte surrettiziamente addensare davanti agli occhi di noi apprensivi e troppo creduloni sudditi italiani (pardon, cittadini…) da parte di qualche ineffabile sabotatore del buon nome e del benessere nazionale.
Non credevo alle mie orecchie quando l’ho sentita e ai miei occhi quando l’ho letta. Ho creduto a una semplificazione dei giornalisti. Mi sono sbagliato: è tutto vero. Il nostro presidente del consiglio la pensa davvero così (ma ammettiamo anche che non la pensi così, come spero per la sua intelligenza; in ogni caso dice così e questo conta... e, sinceramente, non so cosa sia peggio!)
Dunque, espongo in breve.
Dice Prodi dai monti nevosi e irti, sul ciglio di gore profonde nelle quali non s'attosca mai (ahimè), che l’economia italiana non è stata superata da quella spagnola: il pil procapite italiano infatti è ancora superiore a quello spagnolo del 15% circa. Quindi l’Italia vive ancora un benessere superiore a quello della Espana ed il suo sistema-paese sopravanza ancora il sistema-paese iberico. Bene. Benissimo. Ora posso pagare più tranquillo il canone Rai aumentato a sfregio dei cittadini di 2 euro e il biglietto Bari-Roma che tra il 31 dicembre e il 1 gennaio è aumentato del 15,78%. Ora posso pagare con cuore sollevato e leggero la tassa rifiuti aumentata a Roma nell'ultimo anno del 18% (viva Walter, che ci salverà!!). Ora posso regalare con animo lieve il mio stipendio al padrone di casa (poverino, che c'entra lui, prenditela con le leggi del mercato, Fabio... Piccola parentesi: quando abbiamo parlato delle leggi del mercato e della domanda e dell'offerta in classe, nella IH -11 anni, dico 11 anni!- un ragazzino molto pratico mi ha detto: scusi professore, ma queste mele - usavamo il banco delle mele come luogo in cui si incontrano domanda e offerta - qualcuno le compra e qualcuno le vende, quindi non è il "mercato" che fa i prezzi, ma gli uomini che ci vanno, in questo "mercato").
Passo alla definizione di pil procapite: il pil procapite, cioè il prodotto interno lordo per cittadino, si può definire come il tasso medio di crescita della produzione procapite.
Il Pil procapite si fonda sullo stesso principio di calcolo del reddito procapite, da quale viene sostituito spesso nelle statistiche: la produzione totale è infatti spesso superiore alla redditività complessiva di un paese e può trarre in inganno sullo stato di salute del paese stesso. La sostanza del nostro discorso comunque non cambia, poichè il principio che presiede a entrambi gli indici è comune. Ad ogni modo, vediamo per completezza anche che cos’è il reddito medio procapite:
il reddito medio di un gruppo di persone è ottenuto dividendo il totale del reddito prodotto in un certo periodo per il numero medio di componenti del gruppo. Di solito è riportato in unità di moneta per un anno.
Come il PIL procapite, che è espresso però in termini percentuali, anche il reddito procapite è spesso usato per misurare il grado di benessere della popolazione di un paese, comparato agli altri paesi. Perché i diversi dati siano comparabili dev'essere espresso in termini di una moneta usata internazionalmente come l'Euro o il Dollaro.
Vorrei sottolineare che questi indici "procapite" non sempre (o quasi mai) rappresentano in maniera corretta il benessere di un paese, soprattutto quando si confrontano paesi economicamente e culturalmente molto diversi e soprattutto quando "quantificano" economie appartenenti alla fase del capitalismo maturo.
In primo luogo l'attività economica che non crea redditi monetari, come servizi creati all'interno delle famiglie o il baratto non sono tenuti in considerazione. L'importanza di questi servizi varia notevolmente da paese a paese.
Inoltre le differenti valute dei vari paesi convertite ad una valuta internazionalmente riconosciuta non sempre rispettano correttamente i poteri di acquisto reali delle monete. Il reddito procapite va infatti corretto con i dati dei prezzi dei beni e dei servizi principali di cui usufruiscono i cittadini: con queste modifiche, otteniamo degli indici nuovi basati sulla PPP (parità dei poteri d’acquisto)
Ma soprattutto, amici lettori, il reddito procapite e il pil procapite non indicano la distribuzione del reddito all'interno di un paese, cosicché un piccolo gruppo di persone straricche può far aumentare notevolmente il reddito medio dell'intera popolazione di cui la maggioranza può essere poverissima.
Insomma Romano Prodi vuole raccontarci la sua verità usando uno dei metodi più abusati degli ultimi ottocento anni: quello della statistica. In base alla statistica, infatti, noi italiani stiamo bene, possiamo sorridere e grazie sempre alla statistica arriviamo anche tranquillamente alla fine del mese. Meno male che c’è lei. Ora non mi sentirò più povero quando penserò di non potermi permettere l'automobile, poichè l'Italia è uno dei paesi con il più alto rapporto di automobile per abitante e quindi anche io, per la statistica, ne possiedo sempre una. Grazie Madonna Statistica, grazie a te e alle tue ancelle... sì le tue ancelle, o Vergine Santa, le suadenti Medie... Vorrei ricordarle, queste fanciulle dagli occhi azzurri, i seni al vento che fanno ciao agli italiani e gli ricordano quant'è grande e ricca questa penisola (prossima isola...), e con gli occhi stillanti lussuria gli suggeriscono prospettive future con parole che scivolano contorte dalla fessura allusiva tra le labbra carnose...
Mi rivolgo direttamente a lei, signor Prodi.
Fuor di metafora e di scherzo, dovrebbe ricordare ai suoi sudditi, caro presidente, che la “media” è un dato poco significativo se non sappiamo a che cosa si riferisce, su quale base è calcolata, con quale criterio è definita.
Diceva Des McHale che «l’umano medio ha una mammella e un testicolo». Oppure Rita Mae Brown ci ricorda argutamente che «le statistiche dicono che uno su quattro soffre di qualche malattia mentale. Pensa ai tuoi tre migliori amici. Se stanno bene, vuol dire che sei tu. ».
Quello che vorrei che non dimenticasse, caro presidente, è che la media, comunque calcolata, è un concetto astratto. Una delle poche certezze assolute della statistica è che ciò che è “medio” non esiste. Ogni cosa si colloca necessariamente sopra o sotto il dato “medio”. Per questo, e per tutto il resto che non ho tempo di dire, io credo...
...che lei, come tutti i suoi compagni di merenda (e colazione, e pranzo, e cena) impoveriate coscientemente la massa dei cittadini tutti i santi giorni dell’anno, dal primo all’ultimo, arricchendo automaticamente, per la legge dei vasi comunicanti, una ristretta e privilegiata minoranza (di cui però, glielo riconosco, lei non fa parte, vista la sua sobria e misera dichiarazione dei redditi). E credo che tutti i santi (o meno santi) giorni, signor Prodi,“correggiate” con la media la vergognosa sperequazione della ricchezza, che causerà, o sta già causando, la distruzione (anzi, la "polverizzazione") di questo paese. Io credo che con il phard delle cifre voi nascondiate artatamente le lacrime del popolo italiano, e credo soprattutto che da quindici anni voi stiate attuando con scalarità scientifica e gradualità chirurgica il "genocidio" sociale ed economico (e contestualmente "culturale") di questo paese. Il genocidio sociale, economico e culturale... il genocidio sociale, economico e culturale per ridurlo in briciole e di quelle briciole far nutrire per anni gli uccelli-sciacalli delle banche di cui tanto siete amici. Piccole sciocchezze, signor presidente. Piccole sciocchezze di valore non quantificabile. Fuor di media, quindi fuor di chiave. Senza lettura perchè senza dato.
E credo inoltre che lei e i suoi amici abbiate scambiato gli italiani per i polli di Trilussa. Certo lei, uomo di cultura fine ma di base popolare, la storiella alla quale mi riferisco ben la conosce. Vorrei riproporla nella sua versione originale. Se la goda tutta. Ma non la legga in romanesco, per favore!
Sai ched’è la statistica?