venerdì 12 settembre 2008

VENEZIA 65

Deleuze, The Wrestler, Un giorno perfetto e il Primo Piano
(ossia quando il Volto si fa Volto e quando il Volto è de-voltificato)



"L'immagine-affezione è il primo piano, e il primo piano è il volto", scrive Gilles Deleuze nel capitolo 6 del primo dei suoi due trattati di filosofia del cinema, "L'immagine-movimento": è cioè allo stesso tempo sia un'immagine specifica e determinabile in base a parametri quantitativi, sia una componente interna a qualunque tipo di piano e campo. Vale a dire, c'è un primo piano di misura, quello comunemente inteso, e un primo piano di senso, come, per esempio, nel caso di un paesaggio, che può essere filmato come un volto, sebbene inquadrato in un campo lungo o lunghissimo. Vediamo in che modo. Paragonando la superficie del volto a quella di un orologio, lo studioso francese definisce il volto una lastra nervosa porta-organi che ha sacrificato l'essenziale alla propria mobilità globale, e che raccoglie o esprime apertamente ogni specie di movimenti locali che il resto del corpo tiene normalmente nascosti. Ogni volta che in qualcosa si scoprono questi due poli, superficie riflettente e micro-movimenti intensivi, si potrà dire che quella cosa è stata inquadrata come un volto, è stata "voltificata". Anche un paesaggio, tornando all'esempio precedente, può avere, insomma, i sussulti di un volto, animarsi di micromovimenti, e quindi "voltificarsi". Un gioco di ombre che crea dualismi spaziali, o uno spazio vuoto che si contrappone a uno pieno, o un semplice movimento del profilmico, per esempio l'oscillare di una foglia alla stregua di un battito di ciglia sulla superficie di un volto/paesaggio immobile, rivelano nel paesaggio le stesse potenzialità di un volto filmato come "volto" (perchè alle volte questo non avviene, e in questo caso il volto è de-voltificato). Deleuze individua due tipi di primi piani: quello in cui prevale la "superficie di voltificazione", in cui cioè il volto è prevalentemente contorno, linea avviluppante, e quello in cui invece entrano in azione tratti dispersi, linee frammentarie, ribelli al contorno, e cioè in cui prevalgono i "tratti di volteità". Nel primo caso il volto si fa riflessivo e riflettente, e i tratti sono raggruppati sotto il dominio di un pensiero fisso, inalterabile e senza divenire, eterno addirittura; nel secondo caso, invece, il volto si fa intensivo, e mette in moto una serie intensiva che opera un salto qualitativo, e che non esprime solo una qualità, ma la potenza di passaggio da una qualità all'altra. Pensavo a questa distinzione mentre guardavo il film di Ozpetek presentato a Venezia. Non riesco tuttora a togliermi dalla testa alcuni primi piani e mi domando: erano volti concentrati sull'espressione di una qualità/emozione specifica oppure volti in cui i micromovimenti esprimevano variazioni in divenire, emozioni in procinto di sopraggiungere? La fissità stordita di quei primi piani stava per farmi optare per la prima alternativa, ma oggi ci ho pensato bene e mi sono reso conto che quella fissità è solo fissità vuota, finestra spalancata sull'assenza di senso, e che il volto nel film non è filmato come volto, e cioè luogo di espressione di qualità in atto o in potenza, ma come segnale stradale, messo lì ad indicare allo spettatore che si trova in presenza di un avvicinamento meccanico al personaggio e quindi deve preoccuparsi di penetrare nel suo intimo. Se ce ne fosse stato uno. Un giorno perfetto è una pinacoteca di volti de-voltificati che sembrano non appartenere a quei personaggi, a quelle linee emozionali, e la loro fissità neutra serve/servirebbe soltanto a ipnotizzare lo spettatore indifeso e illuderlo di penetrare l'emozione di un uomo o di una donna rispetto ai quali, nel corso del film, si resta invece sempre all'esterno (almeno questa è la mia impressione). Personalmente non mi piace quest'uso ruffiano e televisivo del primo piano, e non mi piace il primo piano inteso solo come espediente di montaggio, e non come mezzo di espressione. Penso invece al film vincitore della mostra, il bellissimo The Wrestler di Aronovsky. Ricordo un primo piano straordinario di Mickey Rourke, in cui il volto del protagonista resta semi-immobile per alcuni lunghi secondi, inchiodato, attraverso gli occhi, su quello della figlia. Sono secondi durante i quali l'immobilità non è pietrificata ma vibrante, lentissimamente vibrante, e su quel volto immobile leggiamo la consapevolezza di un destino di dolore e di colpa immutabile, ma allo stesso tempo sentiamo su quello stesso volto la voglia di scrivere tra le proprie rughe, le proprie cicatrici e i propri micro-interstizi emozioni di segno diverso, che a quel destino regalino svolte impreviste, o anche solo temporanee dimenticanze. Restiamo sospesi, durante quei secondi, sospesi sul filo assieme a quel volto, e alla sua coscienza, al suo sapere, e poi cadiamo, precipitiamo nell'abisso, quando da quella superficie riflettente, ma viva e non rigida nel suo riflettere, viene giù una lacrima, che velocissima lo riga e lo taglia. Nel tagliarlo, però, non gli procura soltanto un'apertura nel senso di ferita, taglio simbolico, lesione della superficie e squarcio dell'anima, ferita che lo denuda e letteralmente lo ostende agli occhi inquisitori, ma ancora pieni d'amore, della figlia, bensì anche come nuova possibilità di vita, improvviso allargamento dell'orizzonte: una lacrima che rompe gli argini di una palpebra e cade è il sintomo di un volto che ammette la propria penetrabilità, e quindi vulnerabilità, e soltanto dichiarando la propria debolezza il volto si lascia finalmente guardare, poiché gli occhi dell'altro sono assorbiti e non più soltanto ricevuti. Prima superficie riflettente, poi tratti di volteità: sono le due fasi di questo meraviglioso primo piano di Mickey Rourke. Quand'è usato così, e pochi riescono a farlo, il primo piano acquista un senso: perchè, in caso contrario, avvicinarsi tanto a un essere umano? D'altronde, nella visione normale, non-cinematografica, l'essere umano non "vede" in primi piani, piuttosto li utilizza quando "pensa" a qualcuno, e quindi in una sfera non-visiva bensì virtuale. Nel primo piano di Mickey Rourke ci sono insieme qualità e potenza, attuale e virtuale, emozione e pensiero, e c'è soprattutto un volto che sa, che ha coscienza, che sente: in questo senso, racconta un mondo interiore enorme in pochi secondi. Cosa racconta, invece, un primo piano che deve indicare soltanto "rabbia", o "ira, o "dolore", o "dispiacere"? Durante la visione di Un giorno perfetto ho avuto spesso la sensazione che i primi piani indicassero qualcosa, appunto, ma non raccontassero niente. E' così che un primo piano si fa marca indexicale, istruzione per l'uso per lo spettatore televisivo, immagine che tratta di emozioni senza vissuto.
Ozpetek ha più volte utilizzato campi/controcampi silenziosi in cui i primi piani non parlano, probabilmente perché sperava che il silenzio e la fissità del viso attivassero automaticamente un fuori campo che invece non si è attivato mai. Il silenzio è troppo silenzioso e quindi non è silenzio, perché il silenzio, per parlare, e quindi essere, ha bisogno di un piccolissimo rumore (sonoro e/o visivo) che lo renda appunto espressivo, concreto, materico, presente (silenzio non è infatti sinonimo di muto), così come un volto ha bisogno di un micromovimento per attivare potenzialità espressive, evolutive, performative.
A meno che, come ci dice Deleuze, tutto quel volto non si concentri nell’espressione di una qualità eterna, immobile, definitiva, onnicomprensiva di qualunque tratto interno al contorno-volto. Ma qui entriamo in una sfera diversa, dalla quale appunto la fissità inespressiva e attonita dei primi piani ozpetekiani viene ahimé estromessa. Entriamo, cioè, nella sfera dell’immobilità imperfetta del primo piano di
The Wrestler descritto prima (in cui il primo piano sviluppa tutte le sue potenzialità), o nell’immobilità perfetta, medusea del volto di Edmund in Germania Anno Zero. Ma attenzione, parliamo di un’immobilità che quanto mai densa e lontana dal mutismo semantico. Penso a uno dei primi piani finali del film, uno dei pochissimi dedicati al bambino protagonista e l’unico così prolungato, così evidenziato all’interno del decoupàge, nonché l’unico angolato leggermente dal basso, ad evidenziare la volumetria del volto stesso.
Edmund, per tutti gli ultimi minuti del film, com’è noto, “va a zonzo”, per dirla con il linguaggio di Deleuze, deambula senza meta, saltando qua e là, a volte come giocando, tra le macerie polverose di una Berlino distrutta nel corpo e nello spirito. Il suo corpo agile cerca nel cammino tra le strade e nella danza sulle macerie la possibilità di un mutamento, di un “alleggerimento” di una situazione evidentemente pesante, solidamente piantata nella disperazione. Quasi l’ipotesi di un volo calviniano. Un volo impossibile, purtroppo. Edmund fa quindi il suo ingresso in uno dei tanti palazzi/scheletro della città, sale a un piano alto, e di lì ora può guardare la città distrutta nel suo complesso, così come può osservare la vita distrutta dei suoi fratelli che lo cercano inutilmente per le strade, e può guardare perfettamente negli occhi l’assenza del padre che ha ucciso, e quindi scotomizzare la propria colpa. Qui Edmund acquista uno sguardo distante, “oggettivato” dal mondo esterno che gli si offre in tutta la propria irriducibilità e da quello interno che gli si presenta impietoso, sostituito simbolicamente dalle macerie, al proprio sguardo. E allo stesso tempo, per la prima volta nel film, Rossellini regala al bambino un primo piano che è anche profondamente “soggettivo”: su quel volto si scrive la consapevolezza pietrificata di una situazione immutabile, di una colpa immondabile, di una vita irrecuperabile; su quel volto che si fa pietra e maceria, dove neppure un micromovimento apre ad altri possibili, la decisione si fa conseguente: la morte si prefigura come suggello di una situazione fissata per sempre. Come unico barlume di senso. Rossellini costruisce in questo caso un’immobilità perfetta e abissale, rumorosissima e silente allo stesso tempo, una fissità piena e mai vuota, una superficie di voltificazione, per riprendere la terminologia di Deleuze, che può fare a meno dei tratti di volteità dei micro-movimenti perché attiva, in fuori-campo, un movimento più grande, quello dello Spirito che agisce sulla vita del bambino e sulla storia di una città e di un mondo interi.

lunedì 8 settembre 2008

Alla ricerca di soldi per un nuovo cortometraggio

Il mio secondo cortometraggio continua ad essere selezionato nei festival. Questo mi rende felice ed è forse un meritato riscontro per il tanto e difficile lavoro che gli sta dietro.
Ma nuove e pressanti urgenze artistiche mi scottano mani, cuore, occhi e cervello. E’ l’ora di cominciare un nuovo progetto, di catapultarmi in un nuovo virtuale mondo narrativo a cui dare vita vera, di soddisfare altri e diversi bisogni di racconto.

Il progetto è qui su carta, e urla la sua voglia di essere filmato. Sarà una favola nera, cioè la vicenda surreale di una donna che vuole tornare bambina, un piccolo racconto crudele ma allo stesso tempo tenero verso le debolezze umane, una breve parabola non conciliata e non conciliante, ma alla fine immersa nella luce… Un corto denso, credo, un pugno nello stomaco, un breve viaggio antieroico condensato in un interno senza tempo.

Io e le persone con cui di solito condivido l'esperienza artistica stiamo cerchiamo soldi e persone che vogliano entrare nel progetto, nelle vesti di mecenati oppure di veri e propri produttori/coproduttori del cortometraggio.
Chi crede in me, nel mio sogno e nei miei sogni, o chi ha voglia di farlo dopo avermi ascoltato, chi vuole investire qualche euro in attività artistiche, chi vuole aiutarmi a raccontare delle storie attraverso le immagini, chi ha voglia di farsi un giro sulla macchina affascinante del cinema e chi, infine, è pazzo come me e vuole aiutarmi a mantenere la mia libertà creativa, può mettersi in contatto col sottoscritto attraverso l’indirizzo e-mail baccellier@gmail.com.

venerdì 5 settembre 2008

Baccelliere in Venice
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Passerà oggi in concorso all'International Short Film Festival "Circuito Off" di Venezia il cortometraggio "Dove ci porta la corrente", prodotto dall'Associazione Novara Cine Festival e diretto da Fabio Baccelliere.

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