domenica 7 gennaio 2018

Sul "tornare"



Ci vogliono molti paesaggi "dentro" di sé per riuscire a "sapersi": siamo, anche, il modo cui dialoghiamo con i luoghi, il modo in cui li guardiamo, il modo in cui loro ci guardano. Ce ne sono alcuni, però, da cui prendiamo di più: un'intelligenza, uno spirito, un'emozione, una forma d'affetto che riescono a scendere più in profondità, sotto la soglia che divide le forme che cambiano dalle sostanze che, in qualche modo, restano consistenti. Sono paesaggi che ci dicono di noi quello che neanche le persone più vicine sanno dirci. Si torna anche per questo, credo; anche per questo, credo, si parte con fatica. 


Prima di lasciarli si va da loro: per farne scorta; per rubare un ultimo odore, un ultimo scorcio; per toccarli e sentirne l'anima e la storia sotto le dita. Eppure, neanche in quei momenti si trova pace: perché c'è già una nostalgia che preme, nostalgia di qualcosa che è ancora presente, nostalgia di tutto ciò che non accadrà, delle assenze future. Nostalgia della nostalgia, anche. Mi chiedono: sei tornato? No, non sono tornato. Io torno solo qui, nei paesaggi che mi dicono chi sono; in tutti gli altri luoghi, per quanto amati, non "torno". "Rientro" a Roma, non "torno" a Roma. Per questo, resto ancora qui, fino a che l'ultima goccia di tempo riesce a sfuggire alle strozzature dei rubinetti: quelli della velocità, degli obblighi, delle scadenze. Rientro senza tornare: si torna in un solo luogo. Ed è grazie a questo luogo che si può vedere il mondo.

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