domenica 13 aprile 2008

"DOVE CI PORTA LA CORRENTE"
un cortometraggio di Fabio Baccelliere
L'INTERVISTA

Buongiorno signor regista.
Buongiorno a lei, signor critico.

Dunque parliamo del suo ultimo lavoro. Il titolo mi colpisce. “Dove ci porta la corrente”. Le giro la domanda omologa. Dove ci porta la corrente?
Non lo so. Non le rispondo così per vezzo, davvero. Se lo sapessi, probabilmente non avrei avuto l’esigenza di girare il corto. Diciamo che ho voluto porre a me stesso una domanda per trovare una risposta e che ad oggi non ci sono riuscito.

La corrente da qualche parte dovrà pure portare...
Sinceramente, credo di avere qualche problema nel definire il concetto di mèta: probabilmente perché in questo momento non ho una visione esistenziale chiara, netta, con punti di partenza e punti di arrivo indiscutibili. Parlo sia in termini individuali che collettivi

Insomma, mi pare di capire che il suo lavoro abbia a che fare con la mancanza di un punto d’arrivo certo, forse addirittura di una direzione.
Diciamo piuttosto che ha a che fare con la mancanza di una scelta: molte volte lasciamo alla casualità della corrente la direzione della nostra vita, mentre dovremmo cercare di diventare noi stessi la corrente. Così facendo, invece, la nostra dinamica esistenziale è simile a quella delle foglie del corto: danziamo credendo di decidere noi il nostro movimento ma in realtà siamo soltanto trasportati da una forza liquida superiore ed il nostro è un valzer eterodiretto, innescato magari da impulsi interni ma indirizzato e governato da energie estranee, come il moto di rotazione di un pianeta la cui direzione è però governata da forze di gravità esterne. In fin dei conti, diventando noi stessi, cioè la corrente, la nostra mèta ci diventa chiara, e di conseguenza raggiungibile.

E questo quindi il messaggio del suo film?
Cosa intende con la parola “messaggio”?

Quando un artista partorisce un’opera soddisfa il bisogno di dire qualcosa di importante che gli esplode dentro. Intendo questo.
Non confonderei l’urgenza espressiva con la voglia di lanciare messaggi all’umanità: anzi, le dirò di più, credo che la prima escluda automaticamente la seconda. D’altro canto se l’urgenza esiste realmente stia certo che l’opera finale crea da sé un circuito di comunicazione.

La sua risposta mi fa pensare che quando crea lei tiene un atteggiamento autoreferenziale.
Tutt’altro. Semplicemente io non ho messaggi da lanciare. Piuttosto vorrei avere emozioni da contagiare, sfruttando le potenzialità "virali" dell'arte. Mi piacerebbe che gli spettatori del corto entrassero nel percorso indefinito e nell’atmosfera sospesa che caratterizzano, credo, questo lavoro. Spero di causare nelle persone un’irritazione dell’anima.

Un’irritazione dell’anima? Si spieghi meglio.
Gli uomini cercano automaticamente lo stato di equilibrio interiore. Il che vuol dire temperatura media. La temperatura media è il profilo esistenziale del quotidiano, mentre l’arte deve produrre un surriscaldamento, e quindi uno scarto stra-ordinario. Ammesso che io abbia fatto arte, in questo caso. E’ come un sistema bloccato nell’entropia nel quale si immette energia nuova per creare dinamicità. Parlando di interiorità umana, credo che l’anima, o il nostro “sentire”, ha assolutamente bisogno di espandersi, e per farlo c’è bisogno che qualcosa ne renda porosi i confini, o che li faccia esplodere. Quel qualcosa può essere soltanto l’arte.

Qualunque tipo di arte?
Non saprei. Probabilmente quell’arte che lascia spazio a chi la fruisce, che lascia zone d’ombra, che non definisce e si definisce completamente.

Lei insegue un’arte indefinita, insomma.
Il che non vuol dire imprecisa. Semplicemente, mi piace quando i contorni non sono confini rigidi, quando il colore esce dai bordi, quando il tempo si sfalda.

Come nel corto precedente, al centro del racconto ci sono due persone: un uomo e una donna…
Vuol dire che tendo a ripetermi?

No. Penso che abbia delle predilezioni. Mi sbaglio?
In parte sì e in parte no. Le dinamiche tra uomo e donna mi hanno sempre appassionato. In chiave antropologica e simbolica più che psicologica. Sono talmente varie che non si finisce mai di raccontarle. Ad ogni modo, credo che la prossima volta cambierò.

In che modo?
Farò un film transgender. Parlerò della terza via.

Vorrei parlare ancora di ricorrenze. Troviamo un’altra volta l’acqua.
Amo tutto quanto è liquido. I solidi mi fanno paura, sono immobili e portano al loro interno la mancanza di vibrazione propria della morte.

A volte però la solidità ci definisce.
Dice?

E’ il nostro principio di individuazione. Come si può sapere chi siamo se non ci fermiamo, se non ci solidifichiamo?
Confondere l’identità con lo stato solido è un inganno filosofico e politico. Ciò che è liquido non si può afferrare e la nostra società è strutturata in modo tale che chi la comanda ha la necessità di controllare, mentalmente e fisicamente, tutti gli altri. Ma ora stiamo andando oltre il mio corto.

Quindi dopo il mare con “La voce del mare” e il fiume con “Dove ci porta la corrente” cosa racconterà la prossima volta? Un lago? Una cascata?
Gli esempi di liquidità in questo mondo sono molto più numerosi di quelli che lei crede. Io stesso sono liquido, per esempio. Se vuole può anche bermi. Potrei scioglierle le idee, magari.

Ho ancora qualche domanda. Mi ha colpito per esempio il montaggio del film. Si gioca con i flashback, con i flashforward…
Il tempo è multiforme, l’idea di rappresentarlo con una linea retta è una nostra convenzione. Con Andrea Costantino (l’autore del montaggio, ndr) abbiamo pensato, al contrario, di rompere questa linearità a vantaggio di un doppio livello. A quel punto la storia dei due protagonisti ci è sembrata come chiusa all’interno di un cerchio e il loro tempo non una successione di stati o eventi, ma un sovrapporsi di parole e fatti che entrano in conflitto. E il conflitto è il motore della narrazione, ciò che lega e divide, e in questo caso è il trait d’union tra le due profondità temporali, il presente e il passato, appunto, ed è ciò che dà un senso alla loro sovrapposizione.

C’è una dissolvenza molto bella nel corto: mi riferisco a quella che unisce il passato e le foglie e la casetta sul Ticino del presente, in una sorta di raccordo a tre stadi. Una scelta di linguaggio forte.
Abbiamo fatto un gran lavoro di montaggio. Le ho spiegato prima qual’è stato il concetto di partenza: è a quello che ci siamo attenuti per ogni tipo di scelta. Questo ha comportato qualche sacrificio di materiale e ha prodotto qualche invenzione geniale come quella da lei citata, che genera simultanemante una sintesi temporale e una fusione semantica degli spazi. Andrea Costantino è stato fondamentale: è un grande montatore, o meglio autore del montaggio, espressione che rende meglio l’idea che il montaggio è parte integrante del processo creativo, e più precisamente l’ultimo stadio della scrittura di un film.

Ha scelto un linguaggio essenziale: niente carrelli, pochi movimenti e per di più con macchina a spalla…
Da una parte amo il linguaggio essenziale, perché preferisco lavorare di più sull’inquadratura a livello di forma e significato. Il movimento a spalla mi consente invece di mettermi più al servizio degli attori e di dare vibrazione al mondo raccontato. Il carrello ti dà un tipo di movimento geometrico, disegna traiettorie regolari che in questo lavoro non c’entravano molto. Avrei voluto avere un piccolo dolly, piuttosto, perché è uno strumento straordinario quando vuoi unire alto e basso, cioè disegnare linee trascendenti, o rompere un cerchio narrativo attraverso un “respiro di macchina”. Ma il dolly non ce l’avevo, e quindi ho dovuto fare di necessità virtù.

Come mai la scelta di lavorare con due direttori della fotografia?

Un uomo e una donna non hanno solo quattro occhi, ma soprattutto due sensibilità che si possono integrare in modo perfettamente funzionale. Due modi di vedere il mondo ti possono dare più possibilità di scelta. Come è di fatto avvenuto. Non credo che si sarebbe lavorato allo stesso modo con due uomini o due donne.

Certo che lei per essere un giovane regista ha le idee abbastanza chiare.
Tanto giovane non sono, vado per i 32.

In Italia lo è.
Appunto! In altri paesi sarei un regista e basta. In Italia sono anche “giovane”. Sa bene cosa vuol dire. E’ un cosiddetto “giovane” anche lei.

Come ha impostato il lavoro con gli attori?
Intanto premetto che ho avuto la fortuna di trovare due grandi attori, Anita Kravos e Alessandro Riceci. Il mio lavoro con loro è stato fondamentalmente impostato sul dialogo: ho cercato fin dall’inizio di condividere con loro il “mood” che cercavo di esprimere. Entrambi restituiscono sullo schermo la sospensione, l’indeterminatezza, la mancanza di direzione interiore che desideravo. Al punto che alla fine del lavoro io stesso, dopo averli diretti, ho perso la mia direzione. Ma questa è un’altra storia…

La protagonista del film è una prostituta, ma non è che si veda tantissimo il mondo della prostituzione.
Spero che si senta per assenza. Sarebbe meglio. Ad ogni modo mi interessava il principio simbolico, non il dato sociologico. Non sono bravo in quelle cose, e comunque non rientrano per il momento nella mia ricerca. Ho cercato di far sentire la violenza che la protagonista subisce senza mostrarla, utilizzando la canzone russa che
canta e la formula magica che recita come mezzi illusori di liberazione. Ciò credo che richiami per metonimia una prigione invisibile ma molto dura, una violenza radicale a cui si può rispondere solo con una difesa estrema da parte dell’immaginario individuale. Se è vero che l’uso del fuori campo è molto complicato, quando si riesce a farlo funzionare l’effetto è molto forte. In questo caso si mostra la causa, vista e rivista tante volte in tanti altri film, attraverso i suoi effetti e le risposte soggettive generate. Credo sia più interessante.

Cosa si aspetta da questo corto?
Non mi aspetto niente. Piuttosto spero che riesca a far provare un’emozione agli spettatori che lo guarderanno.

Lei non ha mire ambiziose...
Tutt’altro. Sento in giro sempre meno vibrazione interiore, scarsa ricerca della percezione “altra”. Questo riduce la vita a un numero frazionario. Io sono per gli interi esponenziali, per i numeri potenzialmente infiniti. Provare un’emozione è un allargamento della nostra vita, un’espansione siderale: farla provare, di riflesso, produce gli stessi effetti. La trova un’ambizione così da poco?

E’ per questo che vuole fare del cinema?
E’ per questo che vivo. Il cinema è solo il mezzo del momento.

FINE


lunedì 7 aprile 2008

LA VOCE DEL MARE
regia
Fabio Baccelliere


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