martedì 18 dicembre 2007

Cambiare costa. Distruggere l'abitudine ha un prezzo. Strappare le catene fa sanguinare i polsi...
E allora noi vili
che amavamo la sera
bisbigliante, le case,
i sentieri sul fiume,
le luci rosse e sporche
di quei luoghi, il dolore
addolcito e taciuto -
noi strappammo le mani
dalla viva catena
e tacemmo, ma il cuore
ci sussultò di sangue,
e non fu più dolcezza,
non fu più abbandonarsi
al sentiero sul fiume -
non più servi, sapemmo
di essere soli e vivi.
(C.Pavese)

venerdì 14 dicembre 2007

Il paese dei ladri

L'uomo è "ladro".

L'italiano, poi, lo è in modo speciale.

Ma se un giorno arrivasse l'uomo onesto? Riuscirebbe a diventare il veltro e a mettere in fuga la fiera della cupidigia?

Leggete l' "opinione" di Calvino in questo racconto del 1944.


"C’era un paese dove erano tutti ladri. La notte ogni abitante usciva, coi grimaldelli e la lanterna cieca, e andava a scassinare la casa di un vicino. Rincasava all’alba, carico, e trovava la casa svaligiata.
E così tutti vivevano in concordia e senza danno, poiché l’uno rubava all’altro, e questo a un altro ancora e così via, finché non si arrivava a un ultimo che rubava al primo. Il commercio in quel paese si praticava sotto forma d’imbroglio e da parte di chi vendeva e da parte di chi comprava. Il governo era un’associazione a delinquere ai danni dei sudditi, e i sudditi dal canto loro badavano solo a frodare il governo. Così la vita proseguiva senza inciampi, e non c’erano né ricchi né poveri.


Ora, non si sa come, accadde che nel paese si venisse a trovare un uomo onesto. La notte, invece si uscirsene col sacco e la lanterna, stava in casa a fumare e a leggere romanzi. Venivano i ladri, vedevano la luce accesa e non salivano.
Questo fatto durò per un poco: poi bisognò fargli comprendere che se lui voleva vivere senza far niente, non era una buona ragione per non lasciare fare agli altri. Ogni notte che lui passava in casa, era una famiglia che non mangiava l’indomani.


Di fronte a queste ragioni l’uomo onesto non poteva opporsi. Prese anche lui a uscire la sera per tornare all’alba, ma a rubare non ci andava. Onesto era, non c’era nulla da fare. Andava fino al ponte e stava a veder l’acqua sotto. Tornava a casa, e la trovava svaligiata.
In meno di una settimana l’uomo onesto si trovò senza un soldo, senza di che mangiare, con la casa vuota. Ma fin qui poco male, perché era colpa sua; il guaio era che da questo suo modo di fare ne nasceva tutto uno scombinamento.

Perché lui si faceva rubare tutto e intanto non rubava a nessuno; così c’era sempre qualcuno che rincasando all’alba trovava la casa intatta: la casa che avrebbe dovuto svaligiare lui. Fatto sta che dopo un poco quelli che non venivano derubati si trovarono a essere più ricchi degli altri e a non voler più rubare. E, d’altronde, quelli che venivano per rubare in casa dell’uomo onesto la trovavano sempre vuota; così diventavano poveri.


Intanto, quelli diventati ricchi presero l’abitudine anche loro di andare la notte sul ponte, a veder l’acqua che passava sotto. Questo aumentò lo scompiglio, perché ci furono molti altri che diventarono ricchi e molti altri che diventarono poveri.
Ora, i ricchi videro che ad andare la notte sul ponte, dopo un po’ sarebbero diventati poveri. E pensarono: «Paghiamo dei poveri che vadano a rubare per conto nostro». Si fecero i contratti, furono stabiliti i salari, le percentuali: naturalmente sempre ladri erano, e cercavano di ingannarsi gli uni con gli altri. Ma, come succede, i ricchi diventavano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.
C’erano dei ricchi così ricchi da non aver più bisogno di rubare e di far rubare per continuare a esser ricchi. Però, se smettevano di rubare diventavano poveri perché i poveri li derubavano. Allora pagarono i più poveri dei poveri per difendere la loro roba dagli altri poveri, e così istituirono la polizia, e costruirono le carceri.

In tal modo, già pochi anni dopo l’avvenimento dell’uomo onesto, non si parlava più di rubare o di esser derubati ma solo di ricchi o di poveri; eppure erano sempre tutti ladri.
Di onesti c’era stato solo quel tale, ed era morto subito, di fame."

mercoledì 12 dicembre 2007

Tempo che passa
Oggi sono triste.
Capita, è bene così.
Giornate come questa
sono per me vere e proprie sedute di inconcludente filosofia:
sono intrise di pensiero e riflessioni sul senso della vita,
ma inevitabilmente e ironicamente
anche bagnate dalla mancanza di risposte,
come spugne grondanti d'acqua.
Oggi, in particolare, penso al tempo
e mi rendo conto, come ogni volta,
che il tempo è im-pensabile.
Credo di pensarlo ma in realtà è come se cercassi di prendere in mano l'aria.
Il tempo è un non-concetto.
Il tempo non si può definire.
Per fortuna.
Di esso, insomma, posso dire di non sapere nulla.
So soltanto che non posso permettermi di perderlo.
Guardo a miei giovanissimi studenti e capisco,
da quello che dicono e da quello che fanno,
che pensano di avere un tempo infinito davanti.
Non voglio fargli lezioni sulla fragilità della vita umana,
ma vorrei dirgli tante volte di non buttarne via neanche un po'.
Di tempo non ce n'è mai abbastanza,
anche una goccia di esso contribuisce a rimpinguare quel piccolo bicchiere che è la vita.
Se leggeranno questo post,
spero che i miei studenti ascoltino la canzone di Branduardi in calce.
Scusate, non posso dire altro: il tempo fugge.

sabato 8 dicembre 2007

"Non insegnate ai bambini"
(Il disincanto del mondo adulto)
In questi giorni abbiamo letto in classe (II H, SMS "Lombardo Radice") un racconto di fantascienza. Brevissima sinossi: all'interno di una scuola del futuro, in cui convivono umani e androidi, i bambini veri, condizionati da una moda improvvisa, hanno assunto comportamenti e movenze dei robot, espungendo dalla loro vita emozioni e sentimenti; i giovani robot, viceversa, hanno acquisito il mondo interiore negato dagli esseri umani al punto che il preside, nella sua ronda quotidiana, sorprende in un'aula due ragazzini androidi che si dichiarano amore eterno.
Ho domandato ai ragazzi se secondo loro in un prossimo futuro, vicino o lontano, gli uomini possano smarrire la capacità di amare ed emozionarsi e magari i robot acquisirla a loro volta. Neanche uno di loro ha accettato quest'idea. Neppure uno ha ceduto di un passo dalla propria posizione, neppure uno ha modificato di una virgola la propria idea. "L'uomo non può perdere l'amore, sennò significa che non è un uomo", ha risposto testualmente uno di loro. Avrei voluto rispondere che spesso, purtroppo, accade nel nostro mondo che alcuni uomini perdono l'amore e che quindi cessano di essere uomini.
Non l'ho fatto, ho bloccato la frase sulla punta della lingua. Ho capito all'ultimo istante che la sua risposta era più profonda della mia: voleva dire che un uomo ha sempre dentro di sè l'amore, anche se in apparenza lo perde, anche se si comporta nel peggiore dei modi, anche se lo nasconde. Difatti subito dopo le sue parole hanno confermato la mia intuizione: mi ha spiegato, a parole sue, che non può esistere un essere umano che non prova amore.
La mia giovane alunna stava facendo inconsapevolmente filosofia, stava affrontando il discorso sull'essere umano da un punto di vista nientemeno che ontologico! E con la semplicità e la naturalezza che si mette nell'osservare che il cielo è blu, che l'acqua bagna e che le stelle brillano. E allo stesso modo, nella sua visione, l'uomo ama.
L'uomo non perde mai l'amore, anche se non ama più, anche se è la peggior persona del mondo, dell'universo intero: questa è stata la conclusione, unanime, del dibattito.
Il disincanto del trentenne italiano disgustato dal suo paese è stato messo a tacere dall'incanto del mondo di un gruppetto di dodicenni.
Chissà, forse è da qui che la mia generazione dovrebbe cominciare a muoversi, forse è da qui che si può trovare la spinta a cambiare le cose:
dal reincantare il proprio mondo.
Impariamo da certi bambini a farlo.
E soprattutto, evitiamo di insegnare loro il nostro disincanto...
Ai bambini incantati, e ai grandi che vogliono re-incantarsi, dedico "Non insegnate ai bambini" del maestro Gaber.

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